Il mito galiziano: fra Mitteleuropa e Oriente
Tra Polonia e Ucraina, la Galizia è il simbolo di un mondo che non c’è più. Il Novecento ne ha cancellato persino il nome, tanto che oggi molti la confondono con l’omonima regione tra Spagna e Portogallo.
La Galizia nasce nel 1772, quando Austria, Prussia e Russia si spartiscono i territori dell’antica Confederazione polacco-lituana. Il “Regno di Galizia e Lodomeria” è la parte destinata all’Austria di Maria Teresa, che aveva partecipato malvolentieri alla spartizione, forse memore di quando i polacchi di Sobieski salvarono Vienna. Parziale ricompensa dopo la perdita della ricca Slesia a favore di Federico di Prussia, la nuova provincia è una terra povera e disomogenea, dove i signori feudali la fanno da padrone. Comprende polacchi ad ovest e ucraini (o meglio, ruteni) ad est, oltre a una fiorente comunità ebraica. Quest’ultima a metà Ottocento costituisce il 10% della popolazione, con punte del 90% in città come Brody. Le città più importanti sono Cracovia a ovest e Leopoli (Lemberg in tedesco, Lwów in polacco, Lviv in ucraino) ad est, accanto a piccoli centri come Brody, Ternopil e la tristemente nota Oświęcim (Auschwitz).
Tra la Galizia e Vienna
Di fronte al “caos polacco” l’imperatore Giuseppe II prova a fare della Galizia il laboratorio dell’assolutismo illuminato, come Maria Teresa aveva fatto con grande successo nel ducato di Milano. Ma fare le riforme significa togliere potere ai latifondisti polacchi, attaccati ai loro privilegi come e più degli omologhi lombardi, e necessita di risorse difficili da ottenere tra le guerre contro prussiani e turchi e il rigore fiscale del nuovo imperatore. Nonostante le resistenze, però, le riforme austriache ottengono qualche successo. La Patente di tolleranza del 1782 viene estesa alla Galizia liberando gli ebrei da molte restrizioni, le corvées vengono gradualmente ridotte fino all’abolizione della servitù della gleba nel 1848, l’istruzione seppur a fatica comincia a farsi strada. Il successo dell’approccio austriaco si vede, paradossalmente, nel momento della crisi. Nel 1846 la rivolta della città libera di Cracovia dilaga in Galizia. I nobili sognano l’indipendenza polacca, ma i contadini non li assecondano, anzi sfruttano l’occasione per ribellarsi contro i loro signori, vedendo nell’Imperatore l’unico alleato contro l’oppressione feudale.
La rivolta di Cracovia segna uno spartiacque nella storia galiziana. La città viene annessa all’Austria e poco dopo arriva prima l’abolizione della servitù della gleba, poi il compromesso (Ausgleich) fra Austria e Ungheria del 1867, che porta la Galizia nella parte austriaca della nuova doppia monarchia, la Cisleitania. Nello stesso anno Vienna emancipa gli ebrei e concede un’ampia autonomia alla dieta galiziana (Sejm).
Un crogiolo di popoli
Sotto la corona austriaca sia i polacchi che gli ucraini hanno molte più libertà dei connazionali sudditi di Prussia e Russia. Nonostante la propaganda degli stati successori l’abbia definita “prigione dei popoli”, l’Austria-Ungheria ha una legislazione all’avanguardia sulla tutela delle minoranze linguistiche. La Costituzione del 1867 garantisce a ogni suddito di usare la lingua madre nei rapporti con la pubblica amministrazione, e nel 1884 la Corte Suprema Austriaca stabilisce che le comunità debbano fornire una scuola in una lingua se è parlata da almeno 40 bambini a una distanza di cammino di 2 ore dalla scuola.
Mentre Francia, Russia e Germania impongono la lingua nazionale in punta di baionetta, l’Austria incoraggia le associazioni culturali polacche, ebree e ucraine e restaura i monumenti nazionali polacchi. I polacchi delle partizioni russa e tedesca vanno a Cracovia a “respirare aria libera”, e la Galizia accoglie ebrei e ucraini perseguitati dallo Zar. Due polacchi diventano addirittura primi ministri dell’Impero, Alfred Potoki e il conte Badeni. Il nazionalismo è presente, ma, salvo rare occasioni, non mira all’indipendenza, ma a ottenere più autonomia nel contesto dell’Impero. Inoltre, non sempre i nazionalisti riescono a “nazionalizzare” le masse, che sono prese da ben altri problemi. Ad esempio, a Drohobych/Drohobycz popolani ebrei e contadini ucraini si scontrano con la polizia per sostenere il loro candidato al Reichsrat contro l’avversario sostenuto dai proprietari terrieri e dai banchieri ebrei. Di nazionalismo neanche l’ombra.
Gli ebrei
In questo puzzle multietnico emerge una figura leggendaria: l’ebreo galiziano. Reso immortale da Joseph Roth, fino alla Seconda Guerra Mondiale l’ebreo galiziano è simbolo di arretratezza e inferiorità: nel Mein Kampf, Hitler scrive che fu l’incontro con uno di loro a farlo diventare antisemita. Dopo i massacri nazisti, invece, l’ebraismo galiziano è diventato un’icona nostalgica.
I fatti dicono che all’alba della Prima Guerra Mondiale gli ebrei sono più del 10% della popolazione, dal 1867 totalmente emancipati. Vivono soprattutto nelle città e negli shtetl, piccoli o medi insediamenti quasi interamente abitati da ebrei. La loro vita è descritta magistralmente dallo scrittore austriaco Martin Pollack nel libro Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa (2001). Contrariamente ai luoghi comuni, l’ebreo galiziano vive una vita molto misera, in villaggi dove persino le sinagoghe sono di legno. Fame, sovraffollamento e malattie sono la norma e l’emigrazione in America è spesso una necessità. Pochi ebrei si dedicano all’agricoltura, i più lavorano come intermediari fra i contadini e i signori feudali. Con l’avvento della politica di massa, ricorda Eric Hobsbawm, questo fatto scatenerà l’antisemitismo. Altri svolgono mestieri semplici, come il calzolaio o il ferroviere, o lavoretti al limite della legalità. Tra questi ultimi è celebre il Fehlermacher, che procura ai clienti piccole mutilazioni sufficienti per evitare il servizio militare.
Nonostante la miseria, gli ebrei non rinunciano mai all’istruzione: può mancare il pane, ma non il maestro. Ogni villaggio ha la sua scuola, quasi sempre religiosa, e la comunità è disposta a fare sacrifici per permettere ai più brillanti di continuare con l’Università o il conservatorio. Gli ebrei dominano le professioni intellettuali: in Galizia erano il 41% dei lavoratori della cultura, il 58% degli impiegati statali, il 68% dei medici. Libera da persecuzioni, la cultura ebraica fiorisce. La lingua quotidiana è l’yiddish, ma molti imparano anche l’ebraico, il tedesco o il polacco. A Leopoli nasce il primo giornale in lingua yiddsh, il Lemberger Togblat, mentre tra i ceti popolari si diffonde il chassidismo, un movimento mistico di rinnovamento spirituale. I rabbini taumaturghi attirano masse di fedeli, facendo storcere gli occhi ai grandi studiosi del Talmud e della Torah.
Ma gli ebrei non si limitano alla religione. Dalla Galizia ebraica usciranno ben quattro premi Nobel, di cui due in fisica (Isidor Isaac Rabi e Georges Charpak), uno in chimica (Roald Hoffman) e uno in letteratura (S.Y. Agnon), il pianista Severin Eisenberger e Moritz Szeps, il consigliere del delfino d’Austria Rodolfo, oltre al già citato Joseph Roth, autore de La Marcia di Radetzky e La cripta dei cappuccini. Gli ebrei dominano anche il commercio. Tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo Brody, al confine con la Russia, diventa un “porto senza mare”, centro di smistamento degli scambi fra Europa centro-settentrionale e Russia e porto franco dal 1779: qui gli ebrei arrivano a sfiorare il 90%. La libertà degli ebrei galiziani è invidiata dai correligionari sudditi dello zar, che spesso emigrano in massa per sfuggire ai pogrom creando problemi di integrazione.
Terra di uomini e libri
Al confine fra Mitteleuropa e Oriente, la Galizia aveva una vivacità culturale impressionante. La Galizia ha dato i natali a numerosi scrittori di tutte le etnie. Tra gli ebrei possiamo annoverare Bruno Schulz, autore di La strada dei coccodrilli, i teologi chassidici Martin Buber e Nachman di Breslov, Karl Emil Franzos e il poeta Józef Wittlin, autore di Mój Lwów (La mia Leopoli). Nasce in Galizia anche il nobile letterato Leopold von Sacher-Masoch, da cui nasce il termine masochismo. Tra gli ucraini dobbiamo ricordare lo scrittore socialista Ivan Franko, che nei suoi scritti denunciava la miseria e lo sfruttamento del popolo galiziano, ma criticava Marx ed Engels e sognava un’Ucraina autonoma se non indipendente. Sul fronte opposto, a Leopoli nasce nel 1881 Ludwig von Mises. Nato da una famiglia ebraica recentemente nobilitata da Francesco Giuseppe, Mises è uno dei padri della scuola austriaca e del pensiero libertario e maestro del premio Nobel Friedrich von Hayek.
Cracovia e Leopoli sono i centri culturali della regione. La prima era stata la capitale del Commonwealth Polacco-Lituano ed è la culla della cultura polacca, in cui si innalzano statue agli eroi polacchi e si restaura l’antico Palazzo Reale, impensabile nelle partizioni tedesca e russa. La seconda è sede universitaria dal 1661. Inizialmente la lingua è il tedesco, ma nel 1871 viene sostituita dal polacco, mentre si inaugurano corsi in ruteno. Ma la cultura si diffonde anche nei piccoli centri e negli shtetl ebraici, mentre gli emigrati a Vienna o in America diffondono il mito galiziano nel mondo. Citando Paul Celan, natìo della vicina Bucovina, la Galizia è una “terra di uomini e libri”.
La leggenda nera
La Galizia non è certo il Paese del Bengodi. Anzi, è una delle province più povere dell’Impero e la miseria è talmente nera che per molti l’emigrazione è l’unico scampo. La condizione dei contadini, spesso ruteni, è disperata. Nonostante l’abolizione della servitù della gleba nel 1848, il potere dei latifondisti polacchi resta oppressivo e l’ascensore sociale è bloccato. In un mondo di latifondi e piccole proprietà c’è poco spazio per l’innovazione. Le tecniche di coltivazione restano antiquate e l’agricoltura raramente riesce a soddisfare il fabbisogno della popolazione. In quello che Ivan Franko definisce “l’inferno galiziano”, la fame è sempre dietro l’angolo. Lo scrittore ucraino descrive sei anni di carestia: 1848, 1849, 1855, 1865, 1876 e 1889. La miseria galiziana è così nera da far impallidire persino la carestia irlandese, e i polacchi storpiano il nome del regno in “Golicja i Głodomeria”, la terra dei nudi (goły) e degli affamati (głodny). Alla povertà si aggiunge l’alcolismo endemico, perché parte della paga del contadino è ancora in natura, e l’unica “natura” disponibile è l’alcool prodotto dai latifondisti.
Nella seconda metà dell’Ottocento arrivano due speranze di modernizzazione: la ferrovia e il petrolio. Le strade ferrate connettono Leopoli con Vienna in 12 ore (oggi ce ne vogliono di più!) e aprono all’agricoltura galiziana i ricchi mercati dell’Europa centrale, in cambio dei prodotti economici delle fabbriche boeme e austriache. Le stazioni, tutte uguali ed eleganti, diventano il simbolo della modernità e dell’apertura della Galizia a quel “mercato da 50 milioni di abitanti” che è l’Impero asburgico, una sorta di mercato unico europeo ante litteram. Ma la concorrenza mitteleuropea sbaraglia la debole industria galiziana, creando un nuovo incubo: la disoccupazione.
A metà Ottocento tra Drohobych e Boryslav vengono trovati grandi giacimenti di petrolio. La nuova “Pennsylvania galiziana” attira grandi investitori americani e inglesi e magnati ebrei e investimenti del governo di Vienna: il sogno del riscatto non è più un’illusione. All’inizio del nuovo secolo la Galizia è il quarto produttore mondiale di petrolio e la regione inizia a crescere e ridurre il gap con le altre province. Prima della guerra, l’Impero è tutt’altro che un Paese decadente e destinato a crollare, anzi tra il 1870 e il 1913 cresce di più di Inghilterra, Francia e Germania ed è il quarto produttore mondiale di macchinari. L’Ovest è molto più ricco dell’Est, ma il divario comincia a ridursi. Per gli operai accorsi in massa dalle campagne, però, il sogno diventa spesso un incubo. Soprattutto nei giacimenti di petrolio la vita è durissima. I diritti sono pochi, lo sfruttamento è all’ordine del giorno e donne e bambini non sono esenti dal lavoro.
Con il suffragio universale maschile, approvato nel 1907 nella parte austriaca della doppia monarchia, i partiti socialisti e cattolici iniziano a far sentire la loro voce nel Reichsrat, ma la strada è ancora lunga. Le elezioni galiziane sono simbolo di corruzione e spesso i latifondisti cercano ogni mezzo per far vincere i propri candidati. A Vienna la regione viene chiamata “Scandalicia” e per i funzionari austriaci essere mandati in Galizia era considerata una punizione, un po’ come per i romani in Germania. Nonostante ciò, l’amministrazione austriaca è notevolmente più onesta ed efficiente di quella della vicina Russia, e gli effetti si sentono ancora: un recente studio (Becker et al, 2014) mostra che nelle province ex-asburgiche la fiducia verso le istituzioni è nettamente maggiore rispetto alle regioni un tempo russe o ottomane.
La fine della Galizia
Come tutte le leggende, anche quella galiziana ha una fine. Il “secolo breve” non lascia scampo alla Galizia, devastata sia dalla Prima che dalla Seconda Guerra Mondiale. Dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando, nell’Impero si instaura una dittatura militare che distrugge lo stato di diritto. La Russia invade la Galizia nel 1914, l’anno dopo gli austriaci tornano, ma diffidano dei ruteni, potenziali spie russe, e si lasciano andare a esecuzioni sommarie. Nel 1918 la Doppia Monarchia, ormai delegittimata agli occhi dei cittadini, crolla, e con essa il tetto comune che proteggeva i popoli mitteleuropei. I piccoli Stati successori sono “nazionali” solo sulla carta e le tensioni etniche sono continue, soprattutto contro gli ebrei, rimasti popolo senza nazione.
La Seconda Guerra Mondiale distruggerà ciò che rimane della vecchia Galizia multietnica: per ironia della sorte il simbolo dell’Olocausto, il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, sorge proprio nel vecchio regno di Galizia e Lodomeria. Con il patto Molotov-Ribbentrop la Galizia viene divisa fra Hitler e Stalin, poi diventa teatro dell’Operazione Barbarossa. A Leopoli non viene risparmiato niente: solo nel 1941 la città è teatro prima del massacro delle carceri dell’NKVD, poi di uno dei più violenti pogrom nazisti. La fine della guerra è tutt’altro che una liberazione: i sovietici dividono la regione fra Polonia e la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina e attuano massicci scambi di popolazione per rendere i nuovi stati etnicamente omogenei. Oggi la Galizia resta divisa e marginale e il vivace melting pot asburgico vive solo nella leggenda, un ricordo malinconico che ha ancora molto da insegnare all’Europa del 2021.
FONTI:
Becker et al. (2014). ‘The empire is dead, long live the empire! Long-run persistence of trust and corruption in the bureaucracy’. The Economic Journal, 126: 40–74
Fejtő, F. (1990). Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico. Edizione italiana tradotta da Olga Visentini. Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Hodge, N. (2007). ‘Habsburg Krakow: 1795–1809 & 1846–1918’. Local Life. Disponibile al link: https://www.local-life.com/krakow/articles/habsburg-krakow
Judson, P. (2018). The Habsburg Empire: A New History. Cambridge, Massachusetts: The Belknap Press of Harvard
Pelissetto, P. (2021, 18 febbraio). Paola Pelissetto presenta “Galizia” di Martin Pollack. [Video]. YouTube. Disponibile al link: https://youtu.be/9F0egMTu2DA
Pipino, A. (2017). ‘Nella Galizia sconosciuta tra scrittori e luoghi dimenticati.’ Internazionale, 28 maggio. Disponibile al link: https://www.internazionale.it/opinione/andrea-pipino/2017/05/28/galizia-martin-pollack
Pollack, M. (2016, 11 marzo). The Myth of Galicia, Martin Pollack. [Video]. YouTube. Disponibile al link: https://youtu.be/_yxHexRa4tQ